LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI MILANO SEZIONE I La Corte, composta da: dott. Sergio Silocchi Presidente rel. dott. Barbara Bellerio Consigliere sig. Eduardo Minolfi Giudice pop. sig. Santina Trevisan Giudice pop. sig. Marco Ballo Giudice pop. sig. Maia Elisa Bena Giudice pop. sig. Salvatore Lo Giudice Giudice pop. sig. Giuseppe Avallone Giudice pop. ha pronunciato la seguente ORDINANZA Con atto del 20 dicembre 2013 il PM presso il Tribunale di Milano ha interposto appello avverso la sentenza del GUP di quel Tribunale, pronunciata in data 8 maggio 2013 e depositata il 7 ottobre 2013, con la quale erano giudicati P. M., M. A. A., G. G., P. L., D'U. R. e D. H. S. A. tutti originariamente imputati, tra l'altro, del reato di cui all'art. 630 cod. pen. in danno di B. P., segregata in Sannazzaro di Burgundi dal 6 all'8 marzo 2011 al fine, secondo l'accusa, di estorcerle quantomeno la promessa di non farsi mai piu' vedere o sentire dal P., dal quale attendeva un figlio, promessa ottenuta la quale i materiali sequestratori provvedevano a liberarla. A seguito di una lunga disamina, il GUP aveva ritenuto che il reato di cui all' art. 630 cod. pen. dovesse essere derubricato in quello, molto meno grave, di cui all'art. 605 cod. pen., provvedendo ad irrogare agli imputati le pene di cui alla sentenza, determinate anche attraverso la continuazione ex art. 81 cpv. cod.pen. con gli altri reati contestati e, in taluni casi, con riconoscimento di circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla recidiva contestata. Nel proprio gravame, il PM ha sostenuto l'erroneita' di tale decisione, insistendo perche' il fatto piu' grave fosse inquadrato nella fattispecie di cui all'art. 630 cod. pen. e non 605 cod. pen., riservando al PG di udienza la concreta determinazione delle pene da richiedere per ciascun imputato. Anche tutti gli imputati hanno interposto tempestivo e rituale appello, sostenendo o la loro estraneita' ai reati cosi' come contestati, ovvero richiedendo una riduzione di pena in considerazione di circostanze attenuanti a loro favore come quelle di cui all'art. 630, 5° comma cod. pen., ovvero art. 62-bis cod. pen. o ancora all'art. 62 n. 6, u.p. cod. pen. E stata altresi' richiesta, anche nel corso della discussione, dalla difesa di piu' di un imputato il riconoscimento della circostanza attenuante "introdotta" dalla stessa Corte costituzionale con sentenza n. 68/2012, attraverso la declaratoria di parziale illegittimita' dell'art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata sia diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalita' o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuita' del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entita', atteso che la pena edittalmente prevista (superiore nel minimo a quella massima prevista per l'omicidio volontario non aggravato) dalla norma incriminatrice, in assenza di circostanze attenuanti, si presta, peraltro, a qualificare penalmente anche episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell'emergenza. Alcuni degli imputati che hanno richiesto l'applicazione nei loro confronti di circostanze attenuanti, in particolare quelle specificamente riconducibili all'art. 630 cod. pen., sono gravati dalla contestazione della recidiva, segnatamente indicate in imputazione come infraquinquennale ex art. 99, comma 2° n. 2 cod. pen. per M. A., reiterata ex art. 99, 4° comma cod. pen. per G. G., semplice ex art. 99 cod. pen. per D. H. S. A., aggravata specifica e reiterata ex art. 99 2° comma n. 1 e 4° comma cod. pen. per D'U. La riqualificazione del delitto ex art. 630 cod. pen. in quello di cui all' art. 605 cod. pen. non aveva impedito al GUP del Tribunale di Milano di ritenere, come anticipato, per taluno degli imputati condannati, specificamente G. e M. la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla recidiva contestata. Va tuttavia evidenziato che l'impugnazione del PM presso il Tribunale di Milano riconduce il giudizio della Corte d'Assise di appello all'accertamento della sussistenza o meno del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione ex art. 630 cod. pen., con conseguente applicazione, altrimenti esclusa, dell'art. 99, penultimo comma cod. pen., atteso che quel delitto rientra nel novero di quelli indicati dall'art. 407, comma 2 lett. a) cod. proc. pen. Da cio' consegue che, non potendosi pervenire che ad un giudizio di mera equivalenza fra circostanze di opposto segno, qualora la Corte ritenesse sussistente il delitto di cui all'art. 630 cod. pen. anche con le specifiche attenuanti che alla norma competono, la pena applicabile agli imputati recidivi non potrebbe essere comunque inferiore ai 25 anni di reclusione per la sostanziale "inoperativita'" di quelle circostanze, fatta avvertenza che lo stesso PG di udienza ha richiesto l'applicazione della circostanza attenuante soggettiva di cui all'art. 630, 5° comma cod. pen. con carattere di prevalenza per il G.). La questione e' di evidente rilevanza nel presente giudizio non solo per la richiesta del PG a proposito della specifica circostanza attenuante per l'imputato G., ma anche per la astratta possibilita' che questa Corte, attese le modalita' di esecuzione, la durata ed altri fattori emergenti nella consumazione dell'eventualmente ritenuto delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, debba decidere di applicare la circostanza attenuante di natura oggettiva discendente dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 68/2012 (a tal fine si allegano alla presente ordinanza, decisione di primo grado, atti di appello di tutte delle parti, trascrizione delle udienze di appello). Appare quindi profilarsi, nei termini sopra specificati, una non manifestamente infondata questione di legittimita' in relazione agli art. 3 e 27, 3° comma della Carta costituzionale, in relazione ai principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalita', della disposizione di cui all'art. 69, 5° comma cod. pen. come sostituito dall'art. 3 delle legge 5 dicembre 2005 n. 251, nella parte in cui non prevede il divieto di prevalenza delle suddette circostanze attenuanti di cui all' art. 630, 5° comma cod. pen. nonche' di quella introdotta dallo stesso giudice delle leggi con la pronuncia sopra citata, per le ragioni sia espresse in questa decisione che in quella, nella quale e' stata proposta questione parzialmente sovrapponibile alla presente e accolta dalla Corte costituzionale, con la recentissima sentenza n. 106/2014. In detta decisione si e' affrontata la legittimita' costituzionale dell'art. 99, penultimo comma cod. pen. in relazione alla disposizione di cui all'art. 609 bis 3° comma cod. pen. Anche nel caso di specie, invero, la circostanza attenuante speciale di cui art. 630, 5° comma cod. pen. e' stata introdotta al fine specifico di costituire un temperamento all'unificazione in un unico reato di condotte che si differenziano, nettamente in relazione alla diversa intensita' della lesione del bene giuridico tutelato, ponendo l'accento esclusivamente sulle condizioni del reo, per cui potrebbe apparire violato il principio di eguaglianza perche', per effetto del divieto in questione, anche in presenza di una recidiva aspecifica, imputato sarebbe irragionevolmente attinto dalla stessa gravissima pena in editto prevista di chi ha posto in esse un comportamento ben piu' grave del suo, contrastando cio' anche con la finalita' rieducativa della pena che implica un costante principio di proporzione tra qualita' e quantita' di sanzione e offesa. Non dissimilmente sembra a questa Corte di dover concludere con riguardo alla circostanza attenuante, ordinaria e di natura oggettiva, introdotta dalla decisione della Corte costituzionale n. 68/2012. Come e' noto il giudice rimettente della questione in quella sede decisa aveva dubitato della legittimita' costituzionale dell'art. 630 cod. pen., rilevando come la norma censurata punisse con una pena di inusitata severita' condotte delittuose che possono risultare assai meno gravi di altre per durata, modalita' dell'azione e entita' dell'offesa recata alla vittima, e rispetto alle quali detto minimo edittale si rivelerebbe manifestamente sproporzionato per eccesso, con violazione dei principi di ragionevolezza, di personalita' della responsabilita' penale e della funzione rieducativa della pena (artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost.), i quali, come detto, esigono che venga assicurata nella concreta applicazione giudiziale, la possibilita' di adeguare il trattamento sanzionatorio al reale grado di colpevolezza dell'agente e al suo personale bisogno di rieducazione. La Corte costituzionale, anche nell'ambito di un'attenta disamina dei limiti del proprio sindacato, ha voluto ricordare in quella decisione che "l'attuale assetto sanzionatorio del sequestro di persona a scopo di estorsione, delineato dall'art. 630 cod. pen., e' l'epilogo di una serie di interventi normativi, ormai alquanto risalenti nel tempo e con i tratti tipici della legislazione "emergenziale" ... Furono interventi sollecitati dallo straordinario, inquietante incremento, in quel periodo, dei sequestri di persona a scopo estorsivo, operati da pericolose organizzazioni criminali, con efferate modalita' esecutive (privazione pressoche' totale della liberta' di movimento della vittima, sequestri protratti per lunghissimi tempi, invio di parti anatomiche del sequestrato ai familiari come mezzo di pressione) e richieste di riscatti elevatissimi, al cui pagamento spesso non seguiva la liberazione del sequestrato, che trovava invece la morte in conseguenza del fatto...si tratta di una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza, ove riguardata in una cornice di sistema: basti considerare che il minimo edittale e' superiore sia al massimo della pena comminata per l'omicidio volontario (art. 575 cod. pen.), sia al limite massimo di durata della reclusione stabilito in via generale dall'art. 23, primo comma, cod. pen. (ventiquattro anni). "Dall'altro lato, e parallelamente, furono introdotte circostanze attenuanti volte a stimolare forme di ravvedimento dell'agente - qualificate in termini di «dissociazione» - in funzione della liberazione del sequestrato, dell'impedimento delle conseguenze ulteriori del reato o della collaborazione del reo con la giustizia. "Come attesta l'esperienza giudiziaria, la descrizione del fatto incriminato dall'art. 630 cod. pen. - rimasta invariata rispetto alle origini («chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per se' o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione») - si presta, peraltro, a qualificare penalmente anche episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell'emergenza. "Si tratta di fattispecie che - a fronte della marcata flessione dei sequestri di persona a scopo estorsivo perpetrati "professionalmente" dalla criminalita' organizzata, registratasi a partire dalla seconda meta' degli anni '80 dello scorso secolo - hanno finito, di fatto, per assumere un peso di tutto rilievo, se non pure preponderante, nella piu' recente casistica dei sequestri estorsivi. "Rientrano in tale ambito, tra le altre, le fattispecie del genere che viene in discussione nel giudizio a quo: ossia i sequestri di persona attuati al fine di ottenere una prestazione patrimoniale, pretesa sulla base di un pregresso rapporto di natura illecita con la vittima. "Come ricorda il giudice rimettente, la giurisprudenza di legittimita' appare ormai unanime, dopo un intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 17 dicembre 2003-20 gennaio 2004, n. 962), nel ritenere che simili fattispecie integrino il delitto in questione, ricorrendo il requisito dell'«ingiustizia» del profitto perseguito all'agente, dato che la pretesa che egli mira a soddisfare e' sfornita di tutela legale, in quanto avente titolo in un negozio con causa illecita. "In queste e consimili evenienze, il fatto criminoso puo' assumere, tuttavia - e non di rado assume - connotati ben diversi da quelli delle manifestazioni criminose che il legislatore degli anni dal 1974 al 1980 intendeva contrastare: cio', sia per la piu' o meno marcata "occasionalita'" dell'iniziativa delittuosa (la quale spesso prescinde da una significativa organizzazione di uomini e di mezzi); sia per l'entita' dell'offesa recata alla vittima, quanto a tempi, luoghi e modalita' della privazione della liberta' personale; sia, infine, per l'ammontare delle somme pretese quale prezzo della liberazione". Nel ribadire quindi la propria giurisprudenza in ordine al sindacato di legittimita' costituzionale sulla misura delle pene, quel giudice ha osservato che "al pari della configurazione delle fattispecie astratte di reato, anche la commisurazione delle sanzioni per ciascuna di esse e' materia affidata alla discrezionalita' del legislatore, in quanto involge apprezzamenti tipicamente politici. Le scelte legislative sono, pertanto, sindacabili soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (ex plurimis,sentenze n. 161 del 2009, n. 324 del 2008, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006"), ed e' pervenuto a dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'articolo 630 cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata e' diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalita' o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuita' del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entita'. Appare quindi alla Corte rimettente che, nel caso in cui questa Corte giungesse a valutare l'eventuale ricorrenza di una situazione oggettiva siffatta o, nel caso dell'imputato G. a ritenere il suo particolare contributo dissociativo, che potrebbe valergli l'applicazione delle pene, infinitamente piu' lievi, di cui all'art. 605 cod. pen. la disciplina dell'art. 99, penultimo comma cod. pen. che di fatto esclude la possibilita' di una valutazione concreta delle condotte, possa porsi in contrasto con le citate norme della Costituzione.